La Corte Suprema, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, dichiara irrilevante la circostanza che destinatario dell’azione delittuosa sia il convivente more uxorio. È quanto stabilito dalla Seconda Sezione Penale con sentenza n. 40727/09 che, allineandosi all’orientamento giurisprudenziale più recente, ribadisce il principio dell’estensione della tutela prestata dalla norma in esame a soggetti non appartenenti al nucleo familiare.
La norma penale di cui all’articolo 572 c.p., pur essendo inserita tra i delitti contro la famiglia – in particolare, tra i delitti contro l’assistenza familiare – ha una portata di più ampio respiro in quanto riguarda condotte che trascendono i rapporti familiari propriamente intesi. Invero, secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale dominante, la “famiglia” va in intesa in senso lato come ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e abitudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Onde si considera oramai superato quell’orientamento volto ad individuare nella famiglia l’oggettività giuridica prevalente della norma in esame; ritenendo, di contro, che oggetto specifico del suddetto reato sono i singoli rapporti di “familiarità”, ovvero quei rapporti psicologici di varia natura intercorrenti anche tra persone fra le quali non vi sia siano legami di coniugio, di parentela o affinità. Di qui l’inevitabile eterogeneità dei possibili soggetti passivi del reato, tra i quali rientrano la concubina, il compagno, il nipote convivente, i domestici.
Gli ermellini affermano che la norma incriminatrice richiamata mira a tutelare la personalità di taluni soggetti anche nell’ambito di rapporti di diversa natura da quelli definiti familiari, quali quelli sorti per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia e solidarietà per strette consuetudini di vita come, nel caso di specie, in presenza di famiglia di fatto. Alla luce del principio enunciato, la Corte di legittimità, condividendo le decisioni dei giudici di primo e secondo grado, respinge il ricorso proposto dall’imputato; il quale viene condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, al versamento di una somma pari a mille euro a favore della Cassa delle Ammende per aver determinato colpevolmente l’instaurazione del ricorso per cassazione dichiarato inammissibile.
LA STAMPA
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