Quando si parla di status filiationis si allude alla disciplina della condizione di figlio, ossia al rapporto di filiazione riguardo al quale la distinzione tra filiazione legittima e naturale non solo deve ritenersi superata nella realtà sociale, ma è nell’auspicio di una buona parte degli operatori del diritto che venga definitivamente cancellata dal nostro sistema positivo, proprio in ragione del principio di uguaglianza che dovrebbe garantire pari dignità a tutti i figli, non solo nei riguardi di chi li ha generati.
Il Giudice europeo dei diritti dell’uomo ormai da tempo ha provveduto a riformulare il concetto di famiglia che “va oltre la famiglia nucleare, per ricomprendere i rapporti tra i prossimi parenti, legittimi o naturali, i quali esercitano un ruolo considerevole nella vita affettiva della persona”; ma la recente sentenza n. 335 del 14.12.2009 pronunciata dalla nostra Corte Costituzionale, – nel consacrare la piena legittimità del diritto di commutazione previsto nell’art. 537, 3° co., c.c. ritenuto inaspettatamente rispettoso della tendenziale parificazione espressa dal precetto costituzionale all’art.30, comma 3°, grazie all’apporto del giudice nel ruolo di “garante della parità di trattamento nella diversità”,- ponendo a fondamento della propria decisione l’assoluta preminenza della famiglia legittima intesa come archetipo dell’identità familiare, rischia invece di farci arretrare di molto rispetto al resto d’Europa e di esporci in futuro alla censura della Corte di Strasburgo.
Fortunatamente, sulla scia riformista di sistemi giuridici più evoluti del nostro, caratterizzati dall’esistenza di una filiazione unica avulsa da qualunque discriminazione, nel dicembre scorso, dopo una lunga serie di tentativi inutilmente susseguitisi negli anni, si è approdati al d.d.l. n.112 del 29.10.2010 (il precedente d.d.l. n.128/2008, recante “Modifiche di legge in materia di figli legittimi e naturali”, ricalcava i tentativi del 16.3.2007 e del 17.10.2006 passati del tutto inosservati) – ancora una volta con l’obiettivo di superare gli inaccettabili anacronismi che ancora caratterizzano la nostra legislazione in ambito familiare.
Deve rilevarsi che, le difficoltà incontrate dal nostro legislatore nell’attuare la necessaria riformulazione del diritto di famiglia risiedono nella identità cattolica del nostro paese, tanto che le ragioni di carattere religioso hanno sempre finito col condizionare le scelte legislative in materia.
Sempre ligio al dovere nel conformarsi alla dubbia formulazione dell’art. 30 Cost., 3° comma, il nostro legislatore, infatti, dall’avvento della Costituzione in poi, ha continuato a legiferare restando ancorato alla concezione della preminenza dell’interesse super-individuale della “famiglia legittima fondata sul matrimonio”, anziché privilegiare la tutela dei valori fondamentali del singolo individuo, con l’effetto, appunto, di far arretrare di molto il nostro sistema normativo rispetto a quello di ordinamenti stranieri più evoluti.
La ratio riformista dell’ultimo d.d.l. n.112 del 29.10.2010, purtroppo ancora in attesa di essere esaminato dalle Camere, ci appare certamente encomiabile quando dichiara che debba anteporsi “il valore e la centralità della persona umana ad ingiustificate differenze sullo stato di figlio in attuazione dei principi sanciti dalla Costituzione (articoli 2, 3 e soprattutto 30) e degli indirizzi fissati nei trattati internazionali, tra i quali la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione europea (vincolante per l’Italia dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona) e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”; ma la sostanza che emerge dall’articolato ufficialmente reso noto sembra invece tradire qualche lacuna.
Esso prevede soltanto quattro disposizioni. La prima, la più incisiva, che introduce il principio generale dell’unicità di figlio, senza distinzioni, di fatto non elimina le differenziazioni lessicali tra figli, tanto che in luogo del logoro binomio “figli legittimi” e “figli naturali” viene introdotto l’altrettanto discriminatorio “figli nati nel matrimonio” e “figli nati fuori del matrimonio”, nel chiaro intento, riteniamo, di ossequiare supinamente il limite della “compatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima” imposto dall’art. 30, 3°co., Cost. a tutela della famiglia legittima.
Riprendendo poi l’iniziativa contenuta soltanto nel precedente disegno di legge del 16.3.2007, volutamente tralasciata invece dalla successiva proposta n.128 del 2008, accanto ai tradizionali doveri dei genitori di mantenere, istruire e di educare la prole, e fermo il dovere del figlio adulto che abbia completato la propria formazione, e che disponga di mezzi propri, di contribuire ai bisogni della famiglia in cui convive, si decide di novellare il testo dell’art. 315 c.c. e di introdurre il diritto del figlio ad essere amato e assistito moralmente, oltre al diritto di crescere con la propria famiglia, di avere rapporti con i propri parenti, e di essere ascoltato in tutte le questioni e procedure che lo riguardano nel rispetto dei principi enunciati nell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n.176.
Si procede continuando ad attingere dal disegno di legge del 2007; e così, all’art. 315 si affianca ex novo l’art. 315 bis, il quale stabilisce che le disposizioni in tema di filiazione dovranno applicarsi a tutti i figli indistintamente, “salvi i casi in cui vi siano ragioni per distinguere i figli nati nel matrimonio da quelli nati fuori dal matrimonio”.
In nome di non ben identificate ragioni, invece, continua a permanere l’esigenza di differenziare il trattamento giuridico da accordare ai figli nati in costanza di matrimonio e fuori da esso, abbandonato, in tal modo, l’obiettivo di creare un unico status fliationis che non ammetta discriminazione, salvo poi continuare a proclamare in astratto – nel successivo art.2 del ddl n.112 del 2010 – il rispetto del principio di uguaglianza con riguardo alla filiazione adottiva e all’intera procedura ad essa finalizzata.
L’attuale proposta di legge merita comunque un’attenzione speciale almeno nella previsione contenuta alla lettera a), comma 1 dell’art.2, in cui si delinea l’unificazione dei capi I e II del titolo VII del libro primo del codice civile rubricato in un unico titolo «Dello stato di figlio», con tutte le conseguenti modificazioni nella struttura del titolo VII del codice civile; mentre alla lettera b) del citato comma 1 dell’articolo 2 si promuovono le già accennate correzioni lessicali in favore della distinzione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio.
Ma la vera significativa novità, la più attesa, concerne sicuramente il riconoscimento della rilevanza giuridica della parentela naturale, in quanto, per la prima volta, si riesce ad enunciare formalmente il principio secondo il quale il figlio naturale riconosciuto “instaura rapporti di parentela con i parenti del genitore riconoscente”, con tutto ciò che ne consegue in relazione all’adeguamento della disciplina successoria, da improntare al più rigoroso rispetto del principio di uguaglianza tra figli.
Inspiegabilmente, il ddl n.112 del 2010 trascura poi significativi passaggi tracciati soltanto nelle precedenti proposte di riforma.
Se si getta, infatti, una veloce occhiata al ddl n.128 del 2008, e nello specifico alle indicate correzioni da apportare al settore ereditario in nome dell’uguaglianza tra figli, in mancanza di un esplicito richiamo, ci auguriamo venga confermata anche in questo prosieguo riformista l’esigenza di modificare l’art. 565 c.c. che, come è noto, è stato oggetto di ripetuti interventi della Corte costituzionale e di continui rimandi al legislatore perché si armonizzasse la normativa in questione con il principio di uguaglianza, reclamato il riconoscimento formale di una rilevanza giuridica della parentela naturale esclusa dall’ordine dei successibili.
In via preliminare, la riforma avrebbe dovuto senz’altro muovere – ciò che puntualmente non è accaduto – dalla necessaria modifica dell’art.74 c.c. (avente ad oggetto la nozione di “parentela”) e recepire al suo interno anche quella naturale, per poi procedere con l’ampliamento della categoria dei successibili previsto all’art. 565, e quindi con la collocazione della parentela legittima e naturale in eguale posizione.
Inoltre, non si conosce la sorte delle precedenti proposte di abrogazione tout court degli artt. 578 (“successione dei genitori al figlio naturale”), 579 (“concorso del coniuge e dei genitori”) e 580 c.c. (“diritti dei figli naturali non riconoscibili”), nonché dell’art.537, 3° co. c.c., sulla commutazione, dell’art.542, 3° co.,c.c., e dell’art.566, 2° co., c.c, così come formulate nel disegno di legge del 2008; e lo stesso dicasi con riguardo all’art. 573 c.c. “successione dei figli naturali” del quale il ddl del 2008 suggeriva la seguente modifica: “ Le disposizioni relative alla successione dei figli naturali si applicano quando la filiazione è stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata o è stata accolta azione ex art.279 c.c.”
In attesa di sapere, dunque, tra lacune e contraddizioni, se tale delicato processo di riforma riuscirà mai ad interessare le Camere al punto da tramutarsi definitivamente in legge dello Stato, a noi sembra che il permanere nel nostro ordinamento di una disparità di trattamento tra figli legittimi e naturali – soprattutto in ambito successorio vista la sconcertante conferma di legittimità costituzionale dell’art. 537, 3° co. c.c. espressa di recente dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 dicembre 2009, n.335), – oltre a ledere gravemente i diritti di questi ultimi, costituisca un ingiusto fattore di condizionamento per la coppia, la quale invece deve potersi ritenere libera di scegliere per sé un regime di minor tutela anche fuori dal matrimonio, senza per questo rischiare di compromettere gli interessi dei propri figli.
Maria Rosaria Basilone