“La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruttrice.”
Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938
La violenza non conosce differenze sociali e culturali. Vittime e aggressori appartengono a tutte le classi culturali e a tutti i ceti economici.
La famiglia, il luogo nel quale ogni individuo dovrebbe sentirsi più sicuro e dove dovrebbero essere trasmessi affetto, comprensione, protezione e buoni principi, rischia però di diventare, in caso di violenze e maltrattamenti, il luogo più pericoloso e omertoso.
Non si parla solo di abusi e violenze fisiche, ma anche di violenze psicologiche che, pur non lasciando tracce “fisiche” visibili, segnano profondamente la vita delle vittime.
Le donne sono ancora oggi, purtroppo, le principali vittime di violenza.
Tuttavia, pur rappresentando un fenomeno meno noto, dalle cronache giudiziarie emerge che anche la donna, a volte, si rende protagonista di maltrattamenti assumendo atteggiamenti vessatori nei confronti dell’uomo. È, per esempio, del 6 aprile 2013 la notizia di una trentasettenne di Valderice, nel trapanese, alla quale i carabinieri hanno notificato una misura cautelare personale di “allontanamento dalla casa familiare”.
La donna, da circa cinque anni, “maltrattava il proprio marito con minacce e condotte vessatorie: l’uomo, un modesto manovale dall’indole mite, a volte e per motivi futili, veniva percosso con il bastone o con il “mattarello” da cucina, riportando anche lesioni personali”[1]. La donna, inoltre, non lasciava al marito neppure i soldi per il pranzo, pur continuando a prelevare i soldi dal conto corrente del marito che, con difficoltà e sacrificio, riusciva a racimolare modeste somme.
Ancora, è dell’8 dicembre 2012 la notizia della condanna da parte di un giudice, donna, Emiliana Ascoli, a Salerno (mentre negli stessi giorni, nel mondo, si celebrava la Giornata contro la violenza sulle donne,) di una moglie per maltrattamenti ai danni del marito anche alla presenza delle due figlie minorenni della coppia[2].
L’Istat parla chiaro: la violenza, sia essa nei confronti di donne o uomini, si consuma prevalentemente all’interno delle mura domestiche.
Il fatto grave è che, in questi casi, a causa del retaggio culturale, non solo la violenza non viene denunciata ma non viene nemmeno avvertita dalla vittima in tutta la sua gravità[3].
È per questo indispensabile svolgere una continua opera di sensibilizzazione sul problema informando costantemente le vittime sugli strumenti di tutela offerti dalla legge e incoraggiandole a difendersi e a denunciare.
Affrontati tutti gli strumenti di tutela riassunti nel box a lato, è bene chiedere la separazione, ove non vi sia stata resipiscenza da parte del coniuge violento, quantomeno dimostrata dalla volontà di mettersi in terapia urgente e solida.
Con riferimento alla richiesta eventuale di addebito, la sentenza della Cassazione n. 104803/2012 ha chiarito che l’abbandono del tetto coniugale in sé non può essere posto a fondamento di una richiesta di addebito nei confronti del coniuge che si è allontanato pur non essendo autorizzato a farlo.
Nel caso di specie, il marito aveva chiesto che la separazione fosse addebitata alla moglie per aver abbandonato il tetto coniugale. La Cassazione ha però ritenuto di dover respingere il ricorso proposto dall’uomo avendo rilevato che “la frattura del consorzio familiare si era già creata per effetto dei pregressi ed unilaterali comportamenti prepotenti e prevaricatori messi in atto dal marito nei confronti della moglie” facendo dunque perdere rilevanza all’ abbandono del tetto da parte della moglie.
Con riferimento, invece, al reato di abbandono del tetto coniugale la Cassazione penale, con sentenza n. 12310/2012, ha avuto modo di ribadire che “il reato di cui all’art. 570 comma 1 c.p., nella forma dell’abbandono del domicilio domestico, non può ritenersi configurabile per il solo fatto storico dell’avvenuto allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale.”
Secondo la Cassazione, il Tribunale prima e la Corte territoriale poi, errando, si erano limitate ad accertare il mero dato oggettivo dell’abbandono “non effettuando quella indispensabile verifica dell’esistenza di ragioni idonee a giustificare quella condotta materiale, quali a esempio l’impossibilità o l’estrema penosità della convivenza”
Nel sistema antecedente alla grande riforma del diritto di famiglia del 1975, la separazione giudiziale poteva chiedersi solo quando uno dei coniugi si rendeva colpevole di comportamenti già tipizzati dal legislatore (adulterio, eccessi, sevizie, minacce, volontario abbandono, ingiurie gravi, condanne penali superiori a cinque anni, non fissata residenza). Al giudice, spettava solo il compito di verificare la riconducibilità del comportamento a una delle ipotesi tipiche.
Per quanto la vecchia legge, che sostanzialmente ricalcava lo schema del codice del 1865, non riconoscesse ai coniugi il diritto di separarsi “per qualunque ragione”, già allora alle più gravi violazioni dei doveri familiari il legislatore cercava di porre rimedio “concedendo” in extremis il diritto a separarsi, nonostante il contesto fosse ancora quello di una società fortemente legata al principio dell’indissolubilità del matrimonio (cit. “finché morte non vi separi”).
A seguito della riforma del 1975, la separazione può essere chiesta per qualunque ragione. Anche, semplicemente, perché non si ama più il proprio partner.
Il secondo comma dell’articolo art. 151 c.c. stabilisce che “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.
Dal tenore letterale dell’articolo si comprende agevolmente che “l’addebitabilità” è un’ipotesi meramente eventuale della separazione giudiziale, in quanto disposta solo ove ne ricorrano le condizioni e quando vi sia espressa richiesta.
Inoltre, affinché il giudice pronunci la separazione con addebito, è fondamentale provare il nesso di causalità tra la condotta posta in essere e l’intollerabilità della convivenza. Pertanto il coniuge potrà chiedere l’addebito sia quando l’altro abbia attuato violazioni dei doveri matrimoniali – art. 143 c.c. e 144 c.c. – che comportano lesione della dignità del coniuge o degli interessi dei figli (anche perché l’elencazione contenuta all’art. 143 c.c. non è certo esauriente) sia quando siano stati commessi altri fatti tali da compromettere il normale svolgimento della vita familiare.
Con la riforma, oltre a venir meno la tipizzazione delle cause che giustificano la richiesta di addebito, si è passati anche da una concezione pubblicistica della “famiglia” (la più piccola cellula dello stato), a una funziona privatistica. Di fatto, si è spostata la priorità della tutela giuridica verso gli interessi e i diritti del singolo, rispetto agli interessi della famiglia.
Nella “vecchia famiglia” vigeva l’ordine gerarchico e verticale basato sulla figura del pater familias, il quale esercitava un potere assoluto anche sui figli. La legge, per esempio, consentiva al genitore l’uso dei mezzi correzionali adeguati alle diverse situazioni concrete. A una cattiva condotta del figlio poteva legittimamente seguire una reazione del padre persino violenta, quale espressione della potestà e, come tale, priva di responsabilità penali.
La mutata concezione di famiglia impone, oggi, che:
– il figlio danneggiato dalla prevaricazione genitoriale non venga privato della tutela garantita dalla legge solamente perché un vincolo di parentela lo lega a chi ha causato il danno;
– il coniuge danneggiato possa chiedere una tutela risarcitoria (con una causa distinta da quella di separazione) laddove la violazione dei doveri coniugali non sia solo a fondamento del giudizio di addebitabilità della separazione, ma anche di una separata richiesta di danni (ex. art. 2043 c.c.) in quanto abbia subito un danno ingiusto dal comportamento dell’altro coniuge.
La violenza agisce nell’ombra della casa, all’interno della famiglia, si insinua subdolamente tra le mura domestiche e procede inesorabilmente sino a devastare pensieri, corpi e anime.
Diverse sono le forme nelle quali può manifestarsi la violenza: alcune silenziose, altre eclatanti e manifeste, ma TUTTE ugualmente condannabili (cfr. box). Anche nel giudizio di separazione.
Il Tribunale, in genere, per pronunciarsi sull’addebito, deve tenere conto e valutare il complessivo comportamento tenuto da entrambe le parti durante il matrimonio. La giurisprudenza è consolidata nell’affermare che l’indagine sulla intollerabilità della convivenza deve essere svolta “sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un suo raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito”, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale[4].
Il principio cardine della valutazione comparativa viene però sovvertito in presenza di violazione di regole imperative poste a tutela di beni o diritti fondamentali.
La Costituzione italiana[5], per esempio, annovera, tra i principi fondamentali, il diritto di ogni individuo all’integrità fisica, morale e alla libertà, sia essa di espressione, circolazione, pensiero, fede religiosa.
La Suprema Corte di Cassazione ha, in virtù di tali presupposti, osservato che la violenza è tale da fondare da sola non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto causa determinante la intollerabilità della convivenza, “ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse, e da esonerare il giudice di merito, che abbia accertato siffatti comportamenti, dal dovere di comparare con essi, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze. Infatti tali gravi condotte lesive, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessario e doveroso per la personalità del partner, sono insuscettibile di essere giustificate come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere”[6].
Sostanzialmente viene affermato il principio secondo il quale il comportamento del coniuge violento, sia esso perpetrato verso la moglie o verso i figli, comporta l’addebito della separazione in quanto “irrispettoso e posto in essere in completa violazione del rispetto reciproco che è dovuto al coniuge non solo in quanto tale ma in quanto persona”. Ciò è dovuto anche all’evoluzione che vi è stata negli anni del concetto di famiglia e nel rapporto fra i singoli componenti del nucleo familiare.
Altro principio riconosciuto e richiesto in via generale per le violazioni valutabili ai sensi dell’art. 151 II comma c.c. è la prova del nesso causale.
La Cassazione, sul punto, ha affermato che “la dichiarazione di addebito implica la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio (…) ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza (…)[7]”. In questo senso la Cassazione esclude che fatti successivi alla separazione possano essere considerati valide prove ai fini della valutazione del nesso causale. Ma ne possono essere conferma.
Anche tale principio, in presenza di grave violazioni, viene parzialmente sovvertito.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di osservare come il comportamento del coniuge successivo alla separazione, soprattutto nei tempi immediatamente prossimi, va considerato non di per sé, perché esso è certamente privo di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza “tuttavia può costituire una conferma del passato e quindi illuminare sulla condotta pregressa, questa sì rilevante ai fini del giudizio di addebitabilità[8]”. Nello stesso senso si è espressa la Suprema Corte nella sentenza n. 8928/2012. In tale pronuncia, la Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso di un uomo che chiedeva venisse modificata la sentenza della Corte d’Appello che, applicando il principio di cui sopra, aveva ritenuto (modificando la sentenza del Tribunale di prime cure) di addebitare a lui la separazione deducendo, a prova della sua condotta prevaricatrice e aggressiva, le argomentazioni della sentenza penale con cui era stato condannato, in corso di separazione, per il reato di lesioni nei confronti della moglie. Dalla sentenza emerge che le gravi condotte lesive, traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, e oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner, “sono insuscettibili di essere giustificate come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere.”
Ancora, in tema di onere della prova la sentenza della Cassazione n. 817 del 2011, nell’accogliere il ricorso presentato da una moglie, ha sancito che per l’addebito della separazione basta anche un solo episodio di violenza contro l’altro coniuge quando, invece, il primo giudice aveva escluso la pronuncia di addebito nei confronti del marito affermando che “un solo episodio di violenza fisica, pur altamente riprovevole, non può, ove non corrisponda ad un comportamento tendenzialmente reiterativo, considerarsi quale causa o concausa di determinante rilievo della crisi coniugale, proprio perché la isolata episodicità del fatto patologico presuppone “in re ipsa” che vi sia un contesto di normalità fisiologica del quadro relazionale all’interno della coppia”.
La Cassazione giustamente non ha condiviso questa interpretazione, asserendo che tale fatto non costituiva un comportamento isolato, ma che il marito era solito “alzare le mani” per futili motivi (soprattutto se si considerava che le provate percosse erano state inflitte dal marito alla moglie per avere lei gettato nella spazzatura un pezzo di pane raffermo).
Sempre secondo la Corte, il fatto che risultasse provato per testi, pur un unico episodio di percosse, non poteva far ritenere sussistente “un contesto di normalità fisiologica del quadro relazionale interno alla coppia”. Hanno, infatti, evidenziato i giudici che, in mancanza di lesioni evidenti, si deve tenere conto della difficoltà di provare, tramite testi, gli episodi di violenza avvenuti tra le mura domestiche.
Se dunque non si ammettesse l’addebito per violenza, in quanto dagli atti causa risulta “provato” un unico episodio, si finirebbe per affermare che un solo episodio di percosse non è di per sé un fatto grave e non è gravemente lesivo della dignità della persona umana e “un simile comportamento costituisce affermazione della supremazia di una persona su di un’altra persona e disconoscimento della parità della dignità di ogni persona, che è il principio che sta alla base di tutti i diritti fondamentali considerati dalla nostra Costituzione, ed è, pertanto, comportamento di per sé idoneo a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia.”
Si registra dunque oggi un’inversione di rotta rispetto all’orientamento del passato.
Oggi, dunque, la giurisprudenza segue questo orientamento. Infatti:
1) Con riferimento a pronunce sul mobbing, nel diritto di famiglia, tale termine, è stato utilizzato per la prima volta dalla Corte d’Appello di Torino nella sentenza 21 febbraio 2000, che ha, giustappunto, addebitato la separazione al marito, ritenendo che i comportamenti da lui tenuti durante il matrimonio fossero stati lesivi della dignità della moglie, contrari ai doveri matrimoniali, nonché causa della crisi nella coppia. La motivazione di questa sentenza è molto importante soprattutto perché la Corte d’Appello, con grande merito, ha analiticamente individuato e descritto gli elementi tipici e distintivi del mobbing familiare, quali:
– apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici e conoscenti;
– palesi e teatrali atteggiamenti di disistima e di critica;
– provocazioni continue e sistematiche;
– coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari;
– ingiurie sistematiche.
2) La Corte di Cassazione[9], nel 2005, ha affermato che la violazione dell’art 144 c.c. dove si prevede che i coniugi debbano concordare tra di loro l’indirizzo della vita familiare, le scelte educative e gli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli, quando si traduce in un “atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni e alle richieste dell’altro coniuge, a tratti violento ed eccessivamente rigido può tradursi, oltre che in una violazione degli obblighi dei genitori nei confronti dei figli anche in una violazione dell’obbligo nei confronti del coniuge di concordare l’indirizzo della vita familiare” può essere causa di addebito ex art. 151 secondo comma.
3) L’addebito è stato pronunciato anche per comportamenti violenti non direttamente rivolti al coniuge, ma ai figli. Il Tribunale di Napoli[10] (seguendo le orme della Cassazione) nel 2006 ha addebitato la separazione a un padre (e marito) che con i suoi comportamenti violenti e intransigenti, aveva impedito al figlio di svolgere attività ludiche in quanto ritenute contrarie alle proprie convinzioni religiose. Secondo il Tribunale la violazione dell’art. 147 c.c. può comunque rendere improseguibile e intollerabile la convivenza matrimoniale in quanto pone l’altro coniuge nella posizione di schierarsi a tutela della prole, per contrastare tutti quei comportamenti prevaricatori e violenti.
4) Con riferimento alla violazione degli obblighi di assistenza materiale, l’addebito della separazione può essere pronunciato anche quando un coniuge si rifiuti di essere solidale, violentando la personalità dell’altro e attuando una “forma di persecuzione morale”. Infatti, secondo la Cassazione “l’ingiustificato rifiuto di aiuto e conforto spirituale, con la volontaria aggressione della personalità dell’altro, per annientarla, deprimerla, o comunque ostacolarla[11]” o ancora “la condotta del coniuge che si traduce in fatti di violenza nei confronti dell’altro coniuge e in forme di persecuzione morale, costituisce violazione del dovere di assistenza morale e di collaborazione nell’interesse della famiglia” integrano una pronuncia di addebito in quanto si concretizzano in atteggiamenti in grado di superare la “normale” soglia di tollerabilità della convivenza.
5) Trib. di Prato, 21 novembre 2008, n. 1471, ha addebitato la separazione al marito che aveva sottoposto la moglie a violenze fisiche e psicologiche, umiliandola anche di fronte ai dipendenti dell’azienda di proprietà della moglie. L’aveva poi costretta ad avere rapporti sessuali promiscui (scambio di coppia e sesso di gruppo). Secondo il Tribunale di Prato “Il modo del S. di trattare la M. risulta, senz’ altro, irrispettoso della persona della moglie e viola il dovere di rispetto reciproco che si deve al coniuge non solo in quanto tale ma in quanto persona perché è idoneo a diminuire in modo progressivo la stima di sé in capo all’ altro. L’ atteggiamento sopra riferito, ripetuto nel tempo per tutta la durata del matrimonio (22 anni), unito alla circostanza che la M. aveva manifestato l’ intenzione di cessare le pratiche di scambismo (teste O.) ed il M. era diventato ostile nei suoi confronti, già da soli vengono ritenuti dal Tribunale la causa della impossibilità di proseguire la vita coniugale.”
Ce ne sono poche di sentenze: sia perché avvocati e giudici non sempre sono preparati a valutare la violenza in questi termini, sia perché spesso le relative azioni giudiziarie vengono concluse transattivamente vuoi perché è intervenuta una terapia o una mediazione, vuoi perché la vittima ha accettato l’imposizione del violento, vuoi perché non si voleva lasciare per iscritto la vergogna di famiglia.
Comunque sia con la riforma del 1975 il legislatore ha inteso mantenere vivo quel profilo “sanzionatorio” che era peculiare nel vecchio istituto della colpa.
E, infatti, dall’addebito scaturiscono due importanti conseguenze sul piano patrimoniale: la perdita del diritto al mantenimento (fatto salvo, in caso di necessità, al diritto di percepire gli alimenti) e la perdita del diritto alla quota di riserva nella successione.
Se l’addebito viene pronunciato contro il coniuge debole, che aveva fatto domanda di mantenimento, questi perderà il diritto a percepire un assegno né potrà vantare alcun diritto successorio.
Se la separazione viene addebitata al coniuge forte, che in ogni caso non avrebbe avuto diritto al mantenimento, l’addebito assume però una funzione solamente morale, poiché si traduce, di fatto, nel riconoscimento da parte dell’autorità giudiziaria della responsabilità del fallimento del matrimonio sull’altro coniuge.
I dati statistici, tuttavia, dimostrano che a chiedere l’assegno di mantenimento sono generalmente le mogli, mentre a subire l’addebito per violenza sono per lo più i mariti.
Ciò ci porta a concludere che, alla fine dei conti, “statisticamente”, l’addebito sotto il profilo patrimoniale è cosa inutile. Anzi paradossale. Per avere un incisivo risultato economico da una pronuncia di addebito ci si dovrebbe trovare di fronte a casi di violenza perpetrati dalle donne (che chiedono di essere mantenute) nei confronti di uomini vittime.
Avv. Annamaria Bernardini de Pace
[1] http://notizie.tiscali.it/articoli/cronaca/13/04/06/moglie-violenta-allontanata-picchiava-marito.html
[2] http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/8-dicembre-2012/giudice-donna-fa-condannare-moglie-violenta-maltrattamenti-2113075301532_print.html
[3] Solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in famiglia un reato.: per il 44% è stato solo “qualcosa di sbagliato”, per il 36% solo “qualcosa di accaduto”.
[4] In questo senso: Cass. 1994 n. 3511; Cass. 1999 n. 2444; Cass. 2000 n. 279
[5] Nello stesso modo tali diritti sono tutelati dalla “Carta de Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”.
[6] In questo senso: Cass. 7 aprile 2005 n. 7321; Cass. 14 aprile 2011 n, 8548.
[7] In questo senso: Cass. 27 giugno 2006 n. 14840; Cass. 7 dicembre 2007 n . 25618
[8] In questo senso: Cass. 2 settembre 2005 n. 17710
[9] Nello stesso senso anche: Trib. Milano, sez. IX civ., sentenza 27 febbraio 2013
[10] Tribunale di Napoli, 4 gennaio 2006, in Corriere del Merito.
[11] In questo senso Cass. 7 giugno 1982 n. 3437
Sono nella condizione di avere una sorella ammalata di Alzheimer. Marito la massacrava di offese denigrandola deridendola gettandole ogni oggetto personale peluche dei nipoti e lei piangendo diceva “Irene non c’è più” La abbiamo consigliato dal giudice tutelare fatta andare a vivere vicino al figlio a caserta. Il marito non si è mosso da casa (esclusiva proprietà di mia sorella) e non le dà alcun mantenimento? Cosa fare? A chi rivolgersi? Come? Se siete così gentili da rispondermi e ne avete facoltà ve ne sarei infinitamente grata . Sono 5 mesi che la manteniamo noi sorelle. Comunque Vi Ringrazio IRMA
Ormai i 5 mesi sono passati da tanto. La situazione? Marito sempre in casa senza pagare un soldo. Ha ottenuto il contrassegno H e il posto auto sotto casa ma la macchina serve solo a lui. Mia sorella in una casa famiglia in attesa di avere il posto in una struttura. Ma le leggi???? Dalla casa non si può cacciare e il posto auto lo stesso è stato sempre convivente. Si può solo denunciare ma la polizia locale visto che lui si può muovere come vuole da solo per Napoli e ritrovare il suo posticino…………..
Buongiorno. Sono sposata dal 2009 e dal 2010 mio marito mi picchia. Se cerco di litigare mi strangola, dice che così mi vuole solo spaventare per calmarmi. L\’ultima volta mi ha picchiata solo perché ho buttato nel lavandino mezzo bicchiere di vino perché non volevo più berlo. Altro ieri mi ha detto che mi da un mese per lasciare la casa e che siamo già separati. Ha fatto tutto di nascosto. Io non ho posto dove posso andare perché non ho la famiglia qui e attualmente sono in ricerca di lavoro. Cioè i soldi non c\’è lo neanch per mangiare. Lui dice che sono i problemi miei e nessuno mi crederà che sono stata picchiata. Ma sono pronta a dire questo anche alla macchina della verità. Cosa posso fare? Ho una macchina fiesta molto vecchia e posso vivere anche lì ma.