“La Giustizia umiliata: quale democrazia senza diritti”?
è il titolo della ottava Conferenza Nazionale dell’Avvocatura che si terrà nell’ex romantico Tribunale di Napoli, Castel Capuano.
Sarà una assise di fondamentale importanza, una occasione da non perdere tra inutili divisioni e questioni personali da evitare assolutamente. Forse l’ultima chiamata prima del naufragio.
La nostra professione è al collasso e non lo è per le proditorie mosse del Governo o per le recenti riforme forensi. Lo è perché la storia e il mercato ci hanno presentato il conto.
Ritengo innanzitutto che ritrovare l’unità della classe e scegliere strategie ferme e condivise sia il punto di partenza, non negoziabile.
Tuttavia, prima di decidere quale strategia adottare contro manovre che ci hanno ridimensionato e messi all’angolo, è assolutamente necessario e doveroso analizzare il nostro passato e le scelte che l’avvocatura ha operato negli ultimi decenni.
Non può esservi una lotta al sistema se non si parte da una analisi autocritica di ciò che il mondo forense ha fatto e non ha fatto in questi anni.
Limitare la nostra azione a facili, seppur legittime, doglianze circa lo svilimento del ruolo del difensore nel processo (e quindi nella società) non ci porterà da nessuna parte e saremo più soli di adesso.
Dobbiamo capire perché si è arrivati a questo punto e dobbiamo ammettere, con onestà intellettuale, che un po’, noi avvocati ce la siamo cercata.
Se non capiamo le ragioni del “nemico” non possiamo difenderci.
E a mio parere il “nemico” le ragioni ce le ha, pur avendo sbagliato completamente le proprie mosse.
Il mondo forense è imploso su se stesso da tempo perché non è riuscito a difendere la propria autonomia e il proprio antico fascino e soprattutto la propria credibilità.
Questa è la vera analisi.
Ci siamo fatti male da soli con scelte scellerate e suicide.
Oggi siamo 250.000 avvocati di cui 40.000 cassazionisti.
Una vera follia che ci ha inflazionati e coperti di ridicolo, se pensiamo al numero di avvocati dei Paesi dell’UE (quelli seri).
Fino a qualche anno fa l’esame di avvocato era sotto il controllo di una commissione casalinga. In alcuni distretti il 60% (o forse più) dei candidati superava l’esame al primo colpo.
Un esame farsa, una vera barzelletta, davanti ai magistrati presenti nelle commissioni che hanno accresciuto il loro disprezzo verso il nostro mondo.
I controlli durante le tre prove di “esame” sono stati per anni quasi inesistenti, spesso arrivavano in aula i compiti belli e fatti, spesso i compiti consegnati erano tutti uguali come se fossero stati ciclostilati.
Roba da far rivoltare nella tomba il grande Cicerone.
La preoccupazione dei futuri “Carnelutti” non era acquisire con il sacrificio una preparazione adeguata, quanto quella di studiare il modo di far entrare in aula di tutto (tutto ciò che era vietato) per scopiazzare il compito o rendersi la vita più facile.
E così tutti sapevano che sotto un maglione extralarge magari si nascondeva una cartuccera da cacciatore dove venivano infilati con cura maniacale i pareri che presumibilmente si sperava fossero oggetto della prova scritta da sostenere.
Poi c’era il trucco del codice. Si copiava a colori la copertina del codice con la giurisprudenza e la si incollava a quello vietatissimo della dottrina e il gioco era fatto.
Poi le commissioni, specie nelle piccole realtà, erano piuttosto elastiche nel valutare gli elaborati e così per anni si sono sfornati avvocati come le pizze senza capire (oppure sapendolo benissimo) che si sarebbe arrivati al collasso di oggi.
L’esame di avvocato per anni è stato un voto di scambio, specie per la prova orale.
Alcuni Ordini Forensi hanno fondato il loro potere e il controllo della classe in questo modo.
L’esame era “cosa nostra”, una faccenda privata, una mostruosa e folle fabbrica di disoccupati e di sogni (che dopo sono diventati incubi).
Stesso andazzo riguardava la pratica forense, altra farsa vergognosa.
Il libretto della pratica era firmato dal dominus che certificava la partecipazione del praticante alle udienze. Spesso il “praticante” non sapeva nemmeno dove fosse situato il tribunale.
E così all’esame di avvocato vedevi un mare di candidati che non avevi mai visto in vita tua che magari in quel terno al lotto superavano la prova a dispetto di quei poveracci che la pratica l’avevano fatta per davvero a suon di sacrifici e con una umiliante gavetta alle spalle.
Da trent’anni o forse più per la gran parte dei candidati diventare avvocato è stato solo un “facile ripiego”, una sorta di ultima spiaggia dopo il fallimento di vari concorsi (anche di vigile urbano o carabiniere).
Statisticamente diventare avvocato era più facile di qualsiasi professione o mestiere.
E oggi è ancora così, statistiche alla mano.
Questo andazzo era noto a tutti e i magistrati accrescevano il loro complesso di superiorità nei nostri confronti.
Anche i non addetti ai lavori conoscevano questa vergogna che spazzava millenni di fascino del nostro mondo forense.
Poi le riforme. Ci hanno tolto il controllo dei libretti della pratica, hanno deciso di far svolgere l’esame davanti a commissioni esterne, hanno conferito al mondo accademico il potere di formare gli aspiranti avvocato.
Lo Stato ci ha sfiduciati come se fossimo dei ladruncoli e ci hanno tolto il giocattolo dalle mani come si fa ai bambini disobbedienti.
Una vera umiliazione, se si riflette un attimo, che non ci ha fatto né caldo né freddo, essendo tutti consapevoli che ci avevano “scoperti”.
Anche noi abbiamo ucciso l’avvocatura e non limitiamoci soltanto a maledire il “nemico”. Abbiamo sfornato migliaia di avvocati, troppe volte impreparatissimi, poi dirottati in un mercato saturo e folle.
Siamo diventati troppi e troppo poco pronti per una missione come quella dell’avvocato.
In questo caos infernale (che fa ridere tutto il mondo forense europeo) si è creato un mercato di disperati con la toga che ha cercato di non soccombere al cannibalismo forense. E per campare si è capaci di tutto, come in tutte le faccende umane.
Ci sono colleghi che ne hanno fatte di tutti i colori, che hanno inventato cause fasulle, che hanno collassato i tribunali, che hanno rallentato il già precario corso della giustizia.
Non biasimo questi colleghi, ma deploro il sistema che li ha eletti “avvocati” con una disinvoltura irresponsabile e suicida.
Già quando eravamo 120.000 eravamo tutti fortemente preoccupati. Ma nonostante il timore di finire tutti a mare, le cose non sono cambiate.
Quale fascino può esercitare nella società una professione senza prestigio? Quale potere contrattuale può avere una categoria che si fa male da sola? Cosa pensa la gente di noi? Cosa pensa di noi lo Stato?
Da decenni avremmo dovuto finalmente capire che la ricreazione era finita e che bisognava tornare in classe per iniziare a fare le persone serie.
Noi giustamente rivendichiamo il significato costituzionale del nostro ruolo. Giustissimo. Noi rappresentiamo l’art. 24 della Costituzione. Sacrosanto. Ma come conciliamo tutto questo con ciò che è stato per noi negli ultimi anni?
Se rivestiamo un ruolo centrale nella società e nel processo significa che essere e diventare avvocati è una cosa seria, non una farsa.
Pensavamo forse che aumentando a dismisura il numero degli avvocati sarebbe aumentato il livello occupazionale e professionale?
È come pensare che si stampano più soldi per distribuire più ricchezza?!
È come pensare che raddoppiando il numero di farmacie possano raddoppiare le vendite di farmaci?!
E così per salvare tutti hanno introdotto le liberalizzazioni pensando di dare opportunità a tutti nel nome di una concorrenza selvaggia e un orrendo gioco al ribasso delle parcelle.
Come se non bastasse in questo caos sono arrivati gli “abogados”, gente nostrana che andava a prendersi l’abilitazione in Spagna, paese ancora più complesso e contraddittorio del nostro.
Poi l’università, la facoltà di giurisprudenza, una sorta di parcheggio selvaggio, un esamificio inutile che ha sfornato laureati pieni soltanto di mere nozioni teoriche.
Il diritto, che è la scienza più difficile e più vasta di tutte, è stato svilito da un corso di laurea di soli quattro anni che è risultato inutile per chi poi ha deciso di fare pratica forense.
Il “nemico” sa tutto di noi e della nostra storia recente.
Il “nemico” ci vede come nemici e come un grosso peso sociale che a sua volta rischia di mandare in default l’intero sistema.
Ciò che non abbiamo voluto fare noi, lo fa il nemico.
“Siete troppi? Problemi vostri!”. Questo il messaggio che proviene dalla politica.
E la politica, il nostro nemico, sa bene che la gente non è dalla nostra parte, o almeno non lo è più.
Se sapesse il contrario il nemico non si azzarderebbe a prendere certe decisioni perché la politica cerca solo voti e consensi.
Quindi noi, attualmente, non contiamo niente. Questa è la verità.
Se poi la politica si accorge che siamo anche disuniti può arrogarsi il diritto di prenderci a pedate. Lo capiamo questo?
La mediaconciliazione? Occorreva diminuire il ricorso al processo. Lo hanno chiesto i magistrati.
La responsabilità solidale in caso di cause temerarie? Dovremmo punire noi i colleghi che tirano a campare sostenendo cause perse, turlupinando il prossimo e prendendo in giro un tribunale e il collega avversario.
Il pagamento di un contributo per conoscere la motivazione della sentenza? Assurdo. Orrendo.
Ma come si fa ad evitare che ogni causa finisca in appello o in cassazione? Almeno la metà delle impugnazioni sono infondate e palesemente temerarie.
Cosa proponiamo noi in alternativa?
Ci stiamo rendendo conto che lo Stato vuole difendersi da noi?
È questo il messaggio.
Noi dobbiamo riprendere i contatti con la politica con un programma alternativo, preciso, che tutta l’avvocatura o la maggioranza di essa deve condividere.
Dobbiamo recuperare il terreno perduto e tranquillizzare la società e lo Stato sulla nostra scelta di riqualificare la professione forense.
Non basta maledire il nemico per sentirci a posto con la nostra coscienza o per guadagnare posizioni che abbiamo perso anche e soprattutto per colpa nostra.
La conferenza di Napoli deve cancellare le divisioni che sono violentemente esplose durante l’ultimo Congresso Nazionale Forense di Bari.
L’avvocatura è una sola cosa, al di là delle sigle e al di là delle ambizioni personali.
La riqualificazione dell’avvocatura inizia nel momento stesso in cui si ritrova l’unità di intenti.
Per difenderci dalla politica dobbiamo iniziare a difenderci da noi stessi.
Il nostro ruolo nel processo e nella società resta centrale, ma non si può fare finta di non vedere la realtà.
Cambia e deve cambiare la nostra professione.
Non sarà più la giurisdizione l’unica sede per tutelare i cittadini.
Dobbiamo cambiare pelle e mentalità guardando all’Europa.
Se non si risolvono ora questi problemi per noi non ci sarà più futuro.
Roma, il 15 gennaio 2014
Avv. Gian Ettore GASSANI
Presidente Nazionale AMI