In pochi anni il nucleo della nostra società ha subito una rivoluzione. Quasi un matrimonio su due non è religioso, crescono le convivenze mentre i divorzi calano per colpa della crisi. E se il Paese continua ad essere diverso tra Nord e Sud e città e campagna, la domanda di leggi più moderne rimane inevasa per tutti
Matrimoni in calo costante da cinquanta anni. Un divorzio ogni quattro coppie sposate. Quasi metà delle nozze celebrata con rito civile e una coppia ogni dieci composta da conviventi. La famiglia italiana raccontata con i dati dell’Istat lascia pochi dubbi su quanto sia cambiata la scala di valori nel Belpaese, sempre meno legato all’idea tradizionale di famiglia e allergico ai legami «per sempre».
L’Italia di oggi è molto diversa non solo da quella di cinquanta, ma anche di venti o dieci anni fa. Differente anche da quella rappresentata dalla televisione pubblica. E, per quanto la politica provi a ignorare o rimandare le riforme in tema di famiglia e diritti riproduttivi, sui temi etici gli italiani hanno già fatto quel salto che i loro legislatori non sembrano voler accompagnare.
Molto si è detto sulla costante diminuzione del numero di matrimoni, ma per avere un quadro dai contorni più definiti sulla realtà del paese, abbiamo rapportato una serie di dati sulle unioni alla popolazione residente.
Se nel 2013 si sono sposati 32 italiani ogni diecimila abitanti, nel 1961 erano più del doppio: 79 ogni diecimila (un calo del 59 per cento). Confrontando il dato più recente con quello di cinque o dieci anni prima, la voglia di sposarsi risulta in forte diminuzione: il 22 per cento meno del 2008, e meno 30 per cento rispetto al 2003. Il fenomeno è anche in parte dovuto, come spiega l’Istat , a un «effetto struttura», ovvero il calo delle nascite che ha interessato il nostro paese dalla metà degli anni 70, ha prodotto oggi un calo fisiologico della popolazione in età da prime nozze.
Guardando l’andamento nazionale dei matrimoni salta immediatamente all’occhio, inoltre, il crollo verticale tra il 1971 e il 1981. Sono gli anni delle battaglie civili, alle quali partecipa attivamente anche il nostro settimanale. Nel dicembre del 1970 il divorzio diventa legge, e per quanto ciò non abbia influenza sulla regolamentazione del matrimonio, quel che accade dà il senso del cambiamento culturale in atto nel paese. Per la prima volta viene cioè ridimensionata l’idea del matrimonio come evento centrale, persino inevitabile, dell’età adulta. In quel decennio i matrimoni caleranno infatti del 25 per cento.
È il Friuli Venezia Giulia a registrare il calo più significativo tra 2000 e 2011, in undici anni matrimoni quasi dimezzati: meno 46 per cento. Seguono Umbria (meno 43), e Campania (meno 36,5 per cento). Tiene invece la Calabria, che vanta oggi il numero più alto di matrimoni per abitante, quarantuno per diecimila, con un calo di «soli» undici punti rispetto al 1999. Maglia nera per numero di matrimoni invece, insieme alla «rossa» Emilia Romagna c’è la Lombardia targata Formigoni, che detiene il minor numero di matrimoni per abitante, 27 ogni diecimila. Segno che la politica non cambia i costumi.
E se il calo dei matrimoni poteva non rappresentare una novità assoluta per i più informati, a sorprendere è certamente il fatto che in molte regioni sono ormai oltre la metà gli italiani che preferiscono sposarsi davanti a un ufficiale di stato civile piuttosto che a un prete.
Nel 2013 il 43 per cento dei cittadini ha messo da parte la religione per il suo «giorno più bello». È una società irriconoscibile se confrontata con quella di venti anni prima. Qui le differenze tra Nord e Sud sono piuttosto grandi, ed emerge un paese diviso in due. Con le regioni settentrionali altamente secolarizzate, dove i matrimoni concordatari – cioè cattolici – sono in minoranza, oscillando tra il 46 per cento del Piemonte e il 39 della Valle d’Aosta, e il meridione, dove il matrimonio davanti all’altare è ancora prevalente, con valori che oscillano tra l’86 per cento della Basilicata e il 53 della Sardegna.
Ancora più interessanti sono i dati delle città. La vista che segue mostra le graduatorie dei comuni capoluogo, in base alla percentuale di matrimoni civili e cattolici. Il terzo grafico invece raccoglie il dato sui matrimoni civili in tutti gli oltre ottomila comuni italiani.
Nelle città del nord e del centro i matrimoni civili sono ormai in netta maggioranza, raggiungendo punte superiore all’83 per cento a Siena e Bolzano e con altre tredici grandi città oltre il 70 per cento, compresi capoluoghi di regione come Milano, Firenze, Bologna, Trieste e Aosta. Numericamente, in ben più della metà dei capoluoghi italiani, prevalgono i «sì» laici. In questa parte della graduatoria non è presente nessuna città del Mezzogiorno, fatta eccezione per qualche comune sardo e abruzzese.
Le grandi città del meridione che compaiono per prime sono Catania, con il 43,3 per cento di matrimoni non religiosi, e Napoli, con il 35,4. Tutte le altre sono ben al di sotto di questi valori. È da notare anche che, di norma, la percentuale di matrimoni civili nelle città è sempre più alta rispetto al corrispondente dato regionale. Ciò significa che, senza distinzioni tra nord e sud, il matrimonio religioso è sempre più radicato nelle campagne e nei piccoli centri rispetto alla città.
Anche le convivenze sono in crescita. Nel nord Italia rappresentano ormai il 10 per cento delle coppie, mentre si attestano al 7 per cento nelle regioni centrali. Valori decisamente più bassi al sud, dove resiste il concetto di famiglia tradizionale: sposata e in chiesa. Qui infatti convivono solo tre coppie su cento. In tutti i casi occorre tenere presente che le convivenze formatesi per ragioni affettive, cioè quelle rappresentate da questi dati, sono composte sia da quanti intendono la scelta come alternativa al matrimonio, sia da coloro che la considerano solo un passaggio intermedio. In ogni caso, con l’eccezione del centro Italia che passa dal 5 al 7 per cento, tanto al nord quanto al sud tutti i valori sono più che raddoppiati rispetto a dieci anni prima.
L’annus horribilis per le unioni matrimoniali è il 2011: secondo i dati Istat, a cento coppie che si sono sposate, hanno fatto da contraltare 43,4 separazioni e 26,3 divorzi. Valori che l’anno successivo, il 2012, hanno visto una diminuzione, lieve per quanto riguarda le separazioni e più marcata per i divorzi: meno 6,5 per cento. È il primo calo significativo dai tempi dell’introduzione di questo istituto nel nostro ordinamento.
Ciò indurrebbe a pensare che stia tornando l’armonia tra le coppie italiane. Tuttavia confrontando questo andamento con quello sulle separazioni si svela una storia più prosaica. In crescita dal dopoguerra e dopo una temporanea flessione alla metà degli anni duemila, le separazioni hanno continuato a crescere fino a raggiungere, nel 2011, il record di 15 per diecimila abitanti.
I divorzi diminuiscono, ma le separazioni aumentano. Cosa accade? La ragione di questa controtendenza la si può trovare nei soldi, tanti, che le coppie devono spendere per sciogliere la loro unione. Dal momento che questa flessione coincide con l’inizio della crisi economica italiana, e tenendo conto dei tre anni canonici che occorrono per un divorzio (se tutto va bene), è piuttosto probabile che un numero crescente di famiglie desista da questa scelta, optando per una più semplice separazione.
Scendendo nel dettaglio regionale emergono però i dati più interessanti. Il nord est è da sempre l’area con il maggior numero di divorzi pro capite: nel 2012 in Valle D’Aosta se ne registravano 14,8 per diecimila abitanti, in Liguria 13,4, e in Piemonte 12,1, contro una media italiana di 8,6. Al di sotto di questa soglia solamente il Veneto, in ossequio al suo appellativo di «bianco», con 8 divorzi per diecimila abitanti.
Nel centro Italia la situazione rispecchia la media del paese sia per le separazioni che per i divorzi, con l’eccezione del Lazio. È proprio intorno alla capitale della cristianità che divorzi e separazioni decollano: rispettivamente 18,4 e 9,4 contro medie nazionali di 14,9 e 8,6.
Ma è al sud che si riscontra la crescita maggiore negli ultimi anni. Cliccando sulle regioni è possibile osservare questo fenomeno con il grafico a sinistra. Mentre molte regioni del nord seguono un andamento contrastante, e in calo per qualcuna, al sud aumentano i divorzi e soprattutto le separazioni, che in Campania e Sardegna impennano, portando queste due ai livelli del nord Italia.
Nonostante il leggero calo generalizzato di separazioni e divorzi nell’ultimo anno considerato, il 2012, siamo di fronte a un fenomeno nuovo. Nel nord non cessa il processo di secolarizzazione in atto dal dopoguerra, mentre il sud con il drastico calo dei matrimoni e il repentino aumento di divorzi e separazioni sembra voler salire sul treno in corsa.
Con uno Stato che non riesce a essere pienamente laico, una politica sorda ai richiami dei cittadini che reclamano riforme in senso moderno e inclusivo degli istituti giuridici in tema di famiglia e diritti riproduttivi, gli italiani sono comunque determinati a smarcarsi da quel modello culturale che impone loro regole di vita dettate da sensibilità e precetti religiosi sempre più marginali nella società italiana.
tratto da http://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/02/23/news/la-famiglia-cambia-politica-dorme-separazioni-e-basta-matrimoni-in-chiesa-1.196530